Veronese, Judith with the Head of Holofernes (det.)(ca.1575-80)

martedì 4 gennaio 2022

Il Massacro di Nanchino: l’Eccidio dimenticato di 300.000 innocenti




Japanese soldiers bayonetting an infant during the rape of Nanking



di Annalisa Lo Monaco

Il Massacro di Nanchino, anche detto “Stupro di Nanchino” è uno di quegli episodi che impediscono di pronunciare parole adeguate, di esprimere ogni possibile commento sull’atrocità dei comportamenti umani, che nulla hanno a che vedere con azioni di guerra.

Alla fine degli anni ’30, mentre l’Europa andava inesorabilmente incontro alla seconda guerra mondiale e agli orrori del regime nazista, in Asia era già in atto il secondo conflitto sino-giapponese, che si protrasse dal luglio 1937 al settembre 1945, quando il Giappone fu costretto ad arrendersi incondizionatamente. La Repubblica di Cina tentava di difendersi dall’invasione dei giapponesi, che volevano lanciarsi alla conquista dell’Asia.

Alla fine del 1945 il conto dei caduti cinesi ammontava a 20 milioni, tributo di vite umane secondo solo a quello dell’Unione Sovietica. Si stima che 16/17 milioni di quelle vittime fossero civili disarmati e indifesi, travolti da una ferocia bestiale.

Ferocia bestiale che probabilmente raggiunse il suo apice durante le sei settimane successive alla conquista della città di Nanchino, allora capitale della Cina. Durante la loro marcia di conquista, i soldati giapponesi erano stati autorizzati, con l’approvazione dello stesso imperatore Hirohito, a non tenere in considerazione le convenzioni internazionali che proteggevano i prigionieri di guerra, anzi:
Gli ufficiali dovevano proprio bandire l’espressione “prigioniero di guerra”

Avvicinandosi alla capitale, i soldati giapponesi si erano già dimostrati capaci di azioni criminali che avevano costretto la popolazione rurale a riversarsi in città, dove nessuno trovò la salvezza ma piuttosto una morte atroce.

Dopo la resa di Nanchino, il 13 dicembre 1937, le truppe giapponesi uccisero un numero di persone difficile da quantificare, ma che si aggira tra le 200 e le 300 mila (secondo fonti USA desecretate da poco le vittime furono 500 mila), incendiarono e saccheggiarono la città, stuprarono migliaia di donne, anche bambine e anziane, prima di torturale e ucciderle in modi atroci. A tanto orrore assistettero alcuni stranieri residenti a Nanchino e qualche giornalista, sia straniero sia giapponese. In una lettera alla famiglia un missionario scrisse:

“È una storia orribile da raccontarsi; non so come incominciare né come finire. Non avevo mai sentito o letto di una tale brutalità. Stupri: stimiamo che ce ne siano almeno 1.000 per notte e molti altri durante il giorno. In caso di resistenza o qualsiasi segno di disapprovazione arriva un colpo di baionetta o una pallottola.”

Vennero stuprate circa 20.000 donne pubblicamente, e spesso di fronte ai loro familiari, poi tutti venivano uccisi. I soldati giapponesi rastrellarono sistematicamente gli edifici di Nanchino, prelevando ragazze che venivano denudate e legate lungo le strade, per consentire a qualsiasi militare di violentarle. Alla fine venivano impalate con canne di bambù o con le baionette, mentre le donne incinte erano sventrate. Nemmeno i bambini riuscirono a suscitare la pietà degli invasori: molti furono mutilati, violentati, sbudellati e poi lasciati morti a terra per giorni interi.

Le vittime del massacro furono sepolte in fosse comuni, a volte anche vive, oppure gettate nelle acque del Fiume Azzurro, oppure ancore bruciate, nel tentativo di mascherare in qualche modo la portata dell’eccidio, durante il quale due soldati giapponesi fecero addirittura una scommessa, seguita dai giornali nipponici come fosse una sfida sportiva, su chi avesse per primo ucciso cento cinesi con la propria spada.

Alla fine della seconda guerra mondiale alcuni degli ufficiali che comandavano le truppe giapponesi furono processati: il generale Matsui e l’allora ministro degli esteri Koki Hirota furono condannati a morte, insieme ad altri cinque criminali, mentre lo zio dell’imperatore, il principe Asaka, presente a Nanchino durante le atrocità commesse, riuscì ad ottenere l’immunità perché membro della famiglia reale.

Eppure, ancora oggi, sono molte le personalità di spicco nipponiche (politici, industriali, legislatori) che continuano a negare le atrocità commesse dalle loro Forze Armate, come fosse disonorevole l’ammissione della colpa, e non invece il crimine commesso.

4 commenti:

Cesare ha detto...

Complimenti al missionario, che evidentemente si era preparato alla sua missione leggendo unicamente il suo breviario e studiando unicamente le sue immaginette. Non aveva dato una scorsa neppure alla bibbia, sembra.

v3l3nomortale ha detto...

Beh, stavolta la situazione era un tantinello critica per fare qualcosa.

Cesare ha detto...

Non pretendevo che facesse ma solo che non cadesse dalle nuvole.

v3l3nomortale ha detto...

Una cosa troppo disumana.