Artemisia Gentileschi - Giuditta decapita Oloferne (ca.1612)

domenica 28 ottobre 2012

Miroslav Tichý (November 20, 1926 – April 12, 2011)


Ogni cosa è decisa dalla Terra che ruota.


Timido, sfuggente, poco avvezzo alle docce, non è mai stato ad una sua mostra e costruisce macchine fotografiche, obiettivi e ingranditori con scarti e materiali poveri. Tutti pensano che siano dei giocattoli, mentre lui fotografa per davvero e lo fa molto bene. Solo che per molto tempo nessuno se ne accorge.


Dipinge prima di darsi alla fotografia. Frequenta l’Accademia delle Belle Arti di Praga e durante gli anni del Socialismo Reale, entra a far parte del collettivo artistico Brněnská Pětka (Brno Five) ostile all’ideologia dominante. Negli anni Cinquanta, scopre la fotografia ed iniziano le sue prime sperimentazioni. Nel mezzo c’è la Primavera di Praga, l’opposizione al regime e i suoi lunghi soggiorni in carceri e ospedali psichiatrici. La sua salute mentale è sempre stata fragile e la sua arte e la sua persona sono sempre stati considerati una minaccia.


Miroslav è uno spirito libero, eccentrico, indipendente, folle. Sceglie una vita al limite e si accontenta di una baracca di legno nella città della sua infanzia. Quando la fotografia diventa la sua missione, decide di fare cento scatti al giorno per un certo numero di anni. Però se gli si chiede se è una regola o meno, lui risponde che non lo è. Dipende tutto dal tempo, è il tempo che sceglie, non lui.


Così, mentre la terra compie i suoi giri intorno al sole, lui esce ogni giorno a passeggiare per fare foto.
Nella maggior parte dei casi, protagoniste sono le donne. Le trovi affacciate a un balcone, che parlano su una panchina, in bici, in piazza, in piscina, distese su un prato. Le vedi di schiena, mentre si aggiustano i capelli o mentre camminano per andare a fare la spesa. Ammiri le loro caviglie sottili, il sedere rotondo o troppo grande. Ti sorprendono la cellulite e le calze smagliate.


Non sembra che lui le stia spiando. E invece è lì e da non troppo lontano coglie tutti quei dettagli, i gesti e le smorfie che le rendono inconsapevolmente belle. È la sua interpretazione personale dell’azione di sorveglianza esercitata dal regime. L’immagine che ci ritorna, però, non contiene sospetti, condanne e giudizi.


Ci sono solo i momenti, lo spazio e il tempo di una bellezza che diventa un sogno. Le foto sono sfocate e impolverate come un ricordo, strappate, graffiate e macchiate come la realtà. Il movimento è naturale, la perfezione un’illusione, l’erotismo fantasia.


Fotografare è dipingere con la luce. Un atto concreto che si compie senza pensare a nulla. E poi, sedersi e dormire sulle foto, sviluppare la pellicola di notte in una vasca da bagno, immergere le mani nell’acido.


È la naturale imperfezione della realtà che crea la poesia.



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