mercoledì 8 febbraio 2012
Alberto Moravia - La Noia - Prologo
Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere. Una sera, dopo
essere stato otto ore di seguito nel mio studio, quando
dipingendo per cinque, dieci minuti e quando gettandomi sul
divano e restandoci disteso, con gli occhi al soffitto, una o due
ore; tutto ad un tratto, come per un'ispirazione finalmente
autentica dopo tanti fiacchi conati, schiacciai l'ultima
sigaretta nel portacenere colmo di mozziconi spcnti, spiccai un
salto felino dalla poltrona nella quale mi ero accasciato,
afferrai un coltellino radente di cui mi servivo qualche volta
per raschiare i colori e, a colpi ripetuti, trinciai la tela che
stavo dipingendo e non fui contento finché non l'ebbi ridotta a
brandelli. Poi tolsi da un angolo una tela pulita della stessa
grandezza, gettai via la tela lacerata e misi quella nuova sul
cavalletto. Subito dopo, però, mi accorsi che tutta la mia
energia, come dire creatrice, si era completamente scaricata in
quel furioso e, in fondo, razionale gesto di distruzione. Avevo
lavorato a quella tela durante gli ultimi due mesi, senza tregua,
con accanimento; lacerarla a colpi di coltello equivaleva, in
fondo, ad averla compiuta, forse in maniera neattiva,quanto ai
risultati esteriori che del resto mi interessavano poco, ma
positivamente per quanto riguardava la mia ispirazione. Infatti:
distruggere la tela voleva dire essere arrivato alla conclusione
di un lungo discorso che tenevo con me stesso da chissà quanto
tempo. Voleva dire aver messo finalmente il piede sul terreno
solido. Cosí, la tela pulita che stava adesso sul cavalletto, non
era semplicemente una qualsiasi tela non ancora adoperata, bensí
proprio quella particolare tela che avevo messo sul cavalletto al
termine di un lungo travaglio. Insomma, come pensai cercando di
consolarmi del senso di catastrofe che mi stringeva alla gola, a
partire da quella tela, simile, apparentemente, a tante altre
tele ma per me carica di significati e di risultati, adesso
potevo ricominciare daccapo, liberamente; quasi che quei dieci
anni di pittura non fossero passati ed io avessi ancora
venticinque anni, come quando avevo lasciato la casa di mia madre
ed ero andato a vivere nello studio di via Margutta, per
dedicarmi appunto, a tutto mio agio, alla pittura. D'altra parte,
però, poteva darsi, anzi era molto probabile che la tela pulita
che adesso campeggiava sul cavalletto, stesse a significare uno
sviluppo non meno intimo e necessario ma del tutto negativo, il
quale, per trapassi insensibili, mi aveva portato all'impotenza
completa. E che questa seconda ipotesi potesse essere quella
vera, sembrava dimostrarlo il fatto che la noia aveva lentamente
ma sicuramente accompagnato il mio lavoro durante gli ultimi sei
mesi, fino a farlo cessare del tutto in quel pomeriggio in cui
avevo lacerato la tela; un po' come il deposito calcareo di certe
sorgenti finisce per ostruire un tubo e far cessare completamente
il flusso dell'acqua.
Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che io spenda
qualche parola sulla noia, un sentimento di cui mi accadrà di
parlare spesso in queste pagine. Dunque, per quanto io mi spinga
indietro negli anni con la memoria, ricordo di aver sempre
sofferto della noia. Ma bisogna intendersi su questa parola. Per
molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è
distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il
contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che
per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto,
appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un
genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una
specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.
Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha
sempre fatto l'effetto sconcertante che fa una coperta troppo
corta, ad un dormiente, in una notte d'inverno: la tira sui piedi
e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e
cosí non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro
paragone, la mia noia rassomiglia all'interruzione frequente e
misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto
è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lí i divani, piú in
là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le
finestre, le porte; un momento dopo non c'è piú che buio e vuoto.
Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una
malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita
di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per
trasformazioni successive e rapidissime un fiore passare dal
boccio all'appassimento e alla polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quella dell'assurdità di
una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di
persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può
accadermi di guardare con una ccrta attenzione un bicchiere.
Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o
di metallo fabbricato per mettcrci un liquido e portarlo alle
labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di
rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere
con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla
sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate
che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che
ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo,
col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia
come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdita scaturirà
la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo,
non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa
noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi
che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse
averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso
sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di
essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire
da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse
uscirne, grazie a non so quale miracolo.
Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in
tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufliciente
chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l'infanzia e
poi anche durante l' adolescenza e la prima giovinezza, ho
sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono
di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un
medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme
del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di
spiegare e che gli altn, nel caso mia madre, attribuivano a
disturbi dclla salute o altre simili causc; un po' come il
malumore dei bimbi piú piccoli viene attribuito allo spuntare dei
denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di
giocare e di restare ore intere immobile, come attonito,
sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho
chiamato l'avvizzimento degli oggetti, ossia dall'oscura
consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto.
Si in quei momenti mia madre entrava nella stanza vedendomi
muto, inerte e pallido per la sofferenza mi domandava che cosa
avessi, rispondevo invariabilmente: "mi annoio"; spiegando cosí,
con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d'animo
vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia
affermazione, si chinava ad abbracciarmi poi mi prometteva di
portarmi al cinema quel pome riggio stesso, ossia mi proponeva un
divertimento che come sapevo ormai benissimo, non era il contrari
della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo accogliere con
gioia la proposta, non potevo fare meno di provare quello stesso
sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue
labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che
mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva
balenare come un miraggio davanti a occhi. Anche con le sue
labbra, con le sue braccia con il cinema, infatti, io non avevo
alcun rapporto quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia
madre che il sentimento di noia di cui soffrivo nob poteva
essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia
consiste principalmente nell'incomunicabilità. Ora, non potendo
comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da
qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare
il malinteso e a mentirle.
Sorvolo sui disastri della noia durante la mia adolcscenza.
Allora, la mia pcssima prova a scuola, fu attribuita a dclle
cosiddette "debolezze", ossia congenite incapacità in questa o
quest'altra matcria di insegnamento; e io stesso accettavo questa
spiegazione in mancanza di un'altra piú valida. Adesso so di
certo, invece, che i cattivi voti che mi fioccavano addosso ad
ogni fine d'anno scolastico, erano dovuti ad un solo motivo: la
noia. In realtà io sentivo acutamente, con il solito profondo
malessere, che non avevo alcun rapporto con tutta quell'immensa
farragine di re ateniesi e di imperatori romani, di fiumi
dell'America meridionale e di montagne dell'Asia, di
endecasillabi di Dante e di esametri di Virgilio, di operazioni
algebriche e di formule chimiche. Tutta quesa sterminata quantità
di nozioni non mi riguardava, o mi riguardava soltanto per
constatarne l'assurdità fondamentale. Ma, come ho già detto, non
mi vantavo né con me stesso né con gli altri di questo mio
sentimento puramente negativo; mi dicevo, anzi, che non avrei
dovuto provarlo e ne soffrivo. Già allora questa sofferenza,
ricordo, mi ispirò il desiderio di definirla e di spiegarla. Ma
ero un ragazzo, Gon tutta la pedanteria e l'ambiziosità dei
ragazzi. Il risultato, cosí, fu un progetto di storia universale
secondo la noia, di cui, però, scrissi soltanto le prime pagine.
La storia universale secondo la noia era basata sopra un'idea
molto semplice: non il progresso, né l'evoluzione biologica, né
il fatto economico, né alcun altro dei motivi che di solito si
adducono da parte degli storici delle varie scuole, era la molla
della storia, bensí la noia. Assai infervorato per questa
magnifica scoperta, presi le cose alla radice. In principio,
dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio,
annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l'acqua, gli
animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a
loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si
annoiò di loro e li cacciò dall'Eden; Caino, annoiato d'Abele, lo
uccise; Noè, annoiandosi veramente un po' troppo, inventò il
vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusse il mondo
con il diluvio; ma questo, a sua volta, L'annoiò a tal punto che
Iddio fece tornare il bel tempo. E cosí via. I grandi imperi
egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla
noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il
cristianesimo; la noia del cattolicesimo, il protestantesimo; la
noia dell'Europa faceva scoprire l'America; la noia del
feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del
capitalismo, la rivoluzione russa. Tutte queste belle trovate
furono annotate in una specie di specchietto; quindi, con grande
zelo, cominciai a scrivere la storia vera e propria. Non ricordo
bene, ma non credo di avere oltrepassato la descrizione molto
particolareggiata della noia atroce di cui soffrirono Adamo ed
Eva nell'Eden, e come, a causa appunto di questa noia,
commettessero il peccato mortale. Quindi, annoiato a mia volta
del progetto, lo lasciai lí.
In realtà, soffrii di noia tra i dieci e i vent'anni forse in
misura maggiore che in tutte le altre età della mia vita. Sono
nato nel 1920, la mia adolescenza passò, dunque, sotto l'insegna
nera del fascismo, ossia di un regime politico che aveva eretto a
sistema l'incomunicabilità cosí del dittatore con le masse come
dei singoli cittadini fra di loro e con il dittatore. La noia,
che è mancanza di rapporti con le cose, durante tutto il fascismo
era nell'aria stessa che si respirava; a questa noia sociale,
bisogna aggiungere la noia dell'ottusa urgenza sessuale che, come
avviene a quell'età, m'impediva di comunicare con quelle stesse
donne con le quali credevo di sfogarla. Ma la noia mi salvò dalla
guerra civile che poco dopo ebbe a devastare l'Italia per due
anni; e precisamente in questo modo: mi trovavo sotto le armi in
una divisione di stanza a Roma; appena fu proclamato
l'armistizio, mi disfeci della divisa e tornai a casa. Quindi fu
promulgato un bando con l'ingiunzione a tutti i militari di
rientrare nei ranghi, pena la morte. Mia madre, con
caratteristico ossequio alle autorità che in quel momento erano
quelle fasciste e tedesche, mi consigliò di rimettermi la divisa e
presentarmi al comando. Lei voleva la mia salvezza; in realtà mi
spingeva verso la dcportazione e probabilmente la morte in un
campo di concentramento nazista, come avvenne a molti miei
compagni d'armi. Fu la noia, e soltanto la noia, ossia
l'impossibilità di stabilire un rapporto qua}siasi tra me e quel
bando, tra me e la divisa, tra me e i fascisti, la noia di cui
avevo sofferto durante vent'anni e che adesso rendeva ai miei
occhi del tutto inesistente il grande impero del fascio e della
croce uncinata, che mi salvò. Nonostante le preghiere di mia
madre, mi rifugiai in campagna, nella villa di un amico, e lí
trascorsi tutto il periodo della guerra civile, dipingendo, una
maniera come un'altra di passare il tempo. Fu allora che diventai
pittore; ossia che sperai di poter ristabilire una volta per
tutte il rapporto con la realtà per mezzo dell'espressione
artistica. Anzi, addirittura, nel primo sollievo provocato
dall'entusiasmo per la pittura, quasi mi convinsi che la mia noia
finora non era stata che la noia di un artista che ignorava di
essere tale. M'ingannavo; ma per qualche tempo mi illusi di avere
trovato il rimedio.
Alla fine della guerra, tornai da mia madre che, nel frattempo,
aveva acquistato una grande villa sulla via Appia. Avevo sperato,
come ho già detto, che la pittura avesse definitivamente
debellato la noia; ma mi accorsi quasi subito che non era cosí.
Ripresi, dunquc, a soffrire di noia nonostante la pittura; anzi,
poiché la noia interrompeva automaticamente la pit tura, mi resi
conto della intensità e frequenza del mio vecchio male con
maggiore precisione di quando non dipingevo. Cosí il problema
della noia si ripresentava immutato; e io allora presi a
domandarmi quali ne potessero essere i motivi, e per via di
esclusione, arrivai a concludere che forse mi annoiavo perché
ero ricco e che se fossi stato povero non mi sarei annoiato
Quest'idea non era cosí chiara nella mia mente, allo ra, come
adesso sulla carta; piú che di un'idea, si trat tava del sospetto
quasi ossessivo che vi fosse un nesso indubitabile benché oscuro
tra la noia e il denaro. No voglio dilungarmi troppo su questo
periodo oltremod sgradevole della mia vita. Poiché mi annoiavo, e
quando mi annoiavo non dipingevo, cominciai a odiaI con tutta
l'anima la villa di mia madre e gli agi di cu ci godevo;
attribuivo alla villa la mia noia e la con seguente impossibilità
di dipingere e anelavo ad al darmene. Ma poiché si trattava, come
ho già detto di un sospetto, non riuscivo a dire chiaramente a mi
madre la sola cosa che avrei dovuto dirle: non vogli vivere con
te perché sei ricca, e la ricchezza mi an noia e la noia
m'impedisce di dipingere. Cercavo, invece, d'istinto, di
rendermi insopportabile, in modo da suggerire e in certo modo
imporre la mia partenza dalla villa. Ricordo quei giorni come
giorni di eterno malumore, di pervicace ostilità, di ostinato
rifiuto, di quasi morbosa antipatia. Non ho mai tratta mia madre
peggio che in quel periodo; e cosí, al noia che mi opprimeva, si
aggiungeva, oltre tutto, la pietà per lei che non riusciva a
spiegarsi la mia sga beria. Ma soprattutto soffrivo di una specie
di paralisi di tutte le mie facoltà, per cui, muto, apatico e
ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come
dentro una prigione ermetica e soffocante.
Il soggiorno nella villa e il mio conseguente stato d'animo si
sarebbero probabilmente prolungati molto di piu se, per fortuna,
mia madre non avesse creduto di rlconoscere nella mia noia il
sentimento analogo che aveva rovinato i suoi rapporti con mio
padre. Cosí è giunto il momento di parlare anche di lui, sia pure
di sfuggita, se non altro perché mi aveva preceduto sul cammino
della noia.
Mio padre, dunque, era un vagabondo nato, a quanto ho potuto
ricostruire, ossia uno di quegli uomini che, a casa, pian piano,
ammutoliscono, perdono l'appetito e, insomma, si rifiutano di
vivere, un po' come certi uccelli che non tollerano di esser
chiusi in gabbia; e che, invece, una volta sul ponte di una nave o
nello scompartimento di un treno, riacquistano tutta la loro
vitalità. Era alto, atletico, biondo e con gli occhi azzurri,
come me; ma io non sono bello essendo precocemente calvo, con un
volto per lo piú fosco e grigio; lui, invece, sí, almeno a
credere ai vanti di mia madre che aveva voluto sposarlo per
forza, nonostante che lui le ripetesse tutto il tempo che non
l'amava e che l'avrebbe lasciata al piú presto. L'avevo Visto
poche volte, perché viaggiava sempre, e l'ultima volta che lo
vidi i suoi capelli biondi erano quasi grigi e il suo viso di
adolescente tutto tagliuzzato da rughe sottili e profonde; ma
portava ancora le spensierate cravatte a farfalla e i vestiti a
scacchi della sua gioventu Andava e veniva, ossia fuggiva da mia
madre con cui si annoiava e poi tornava da lei probabilmente a
rifornirsi di denaro per una nuova fuga, perché non aveva un
soldo, sebbene, in teoria, si occupasse di lmportazioni e
esportazioni". Alla fine non tornò piú. Una raffica di vento, nel
mare interno del Giappone, capovolse un ferry-boat con un
centinaio di passeggeri e mio padre annegò con loro. Che cosa
facesse nel Giappone, se vi si trovasse per le "importazioni e
esportazioni" o per altro motivo, non ho mai saputo. Secondo mia
madre, che amava le definizioni scientifiche o che sembrassero
tali, mio padre aveva la "dromomania", ossia la mania del
movimento. A questa mania, forse, ella commentava pensosamente,
si doveva la sua passione per i francobolli, piccoli documenti
colorati della varietà e vastità del mondo, di cui aveva
accumulato una bella collezione che lei tuttora conservava,
nonché la sua bravura in geografia, la sola materia che a scuola
avesse veramente studiato. Come mi sembra di aver fatto capire,
mia madre con siderava la "dromomania" di mio padre come un ca-
rattere puramente individuale, e però, in fondo,insignificante
io invece, non potevo fare a meno di provare una specie di
fraterna pietà per quella figura patetica e sbiadita,
sempre piú sbiadita a misura che il tempo passava, nella quale mi
pareva di ravvisare, al meno per quanto riguardava i suoi
rapporti con mia madre, alcuni tratti in comune con me. Ma erano
tratti esteriori, come mi rendevo conto, poi, riflettendoci: mio
padre, è vero, aveva anche lui sofferto di noia; ma in lui questa
sofferenza si era risolta in un vagabondaggio felice attraverso i
paesi; la sua noia, in altri termini, era la noia volgare, come
la si intende nor malmente, che non chiedeva di meglio che essere
alleviata da sensazioni nuove e rare. E infatti mio padre aveva
creduto nel mondo, almeno quello della geografia; mentre io non
riuscivo a credere neppure in un blcchiere.
Comunque, mia madre non andò tanto per il sottile e credette di
riconoscere senz'altro, nella mia noia, il rimedio superficiale
che aveva già reso difficili i suoi rapporti con il marito:
"Purtroppo tu hai preso piú da tuo padre che da me," mi disse
alla fine, un giorno, in maniera sbrigativa. "Io so che, quando
vi prende, l' unico rimedio e mandarvi via. Dunque parti, va'
dove ti pare, e quando ti è passata, ritorna."
Risposi subito, con sollievo, che non era mia intenzione partire:
viaggiare non mi interessava affatto Desideravo soltanto
andarmene di casa, mettermi per conto mio. Mia madre obiettò che
era assurdo che io andassi a vivere per conto mio quando potevo
disporre di una grande villa come quella in cui abitavamo, dove,
per giunta, facevo quello che volevo. Ma io, ormai deciso ad
approfittare dell'occasione, risposi con violenza che me ne sarei
andato via il giorno dopo, non un'ora di piú. Cosí mia madre capí
che facevo sul serio. Si limitò allora a ripetere con esperta
amarezza che riconosceva nella mia risposta perfino il tono della
voce di mio padre: facessi dunque quello che piu mi piaceva,
andassi pure ad abitare dove volevo.
Restava la questione del denaro. Eravamo ricchi come ho già
detto, e fino allora io avevo disposto di un credito, per cosí
dire, illimitato: attingevo dal conto in banca di mia madre ogni
volta che ne avevo bisogno. Ma mia madre che prevedeva di dover
ripetere con me l' esperienza già fatta col marito, al quale
aveva sempre dato abbastanza denaro per fuggire ma mai abbastanza
per restar lontano da lei, mi avvertí seccamente che d'ora in poi
mi avrebbe corrisposto un mensile. Le risposi che non chiedevo di
meglio; e quando lei mi annunziò, quasi con una spccie di
indispettito rimorso, la somma che aveva intenzione di
assegnarmi, L'avvertii subito che mi sarei contentato della metà.
Mia madre che si era preparah ad una discussione del genere di
quelle che aveva un tempo sostenuto con mio padre, al quale il
denaro non bastava mai, fu molto meravigliata di questo mio
imprevisto disinteresse. "Ma con cosí poco non potrai vivere,
Dino, esclamò quasi involontariamente. Risposi che era affar
mio; e per non darmi delle arie di asceta, aggiunsi che speravo
comunque di riuscire molto presto a guadagnarmi da vivere con la
pittura. Mi pane che mia madre mi guardasse con incredulità; come
sapevo, non credeva alle mie capacità artistiche. Pochi giorni
dopo trovai uno studio a via Margutta e mi trasferii là con la
mia roba.
Naturalmente, il mutamento di domicilio non portò alcuna
modificazione al mio stato d'animo. Voglio dire che, svanito il
primo sollievo proprio a qualsiasi mutamento, ripresi ad
annoiarmi ad intenalli come in passato. Ho detto "naturalmente"; e
questo perché avrei dovuto prevedere che la noia non sarebbe
scomparsa per un semplice cambiamento di casa: se non altro io
ero ricco non perché abitassi nella via Appia, ma perché
disponevo di una certa quantità di denaro. Che io, poi, non
volessi farne uso, non importava in fondo gran che; anche certi
ricchi che sono avari, spendono una piccolissima parte delle loro
rendite e vivono poveramente; nessuno penserebbe per questo di
considerarli poveri. Cosí, alla prima idea, o meglio alla prima
ossessione che la mia noia e la conseguente sterilità nell'arte
fossero dovute al fatto che abitavo con mia madre, venne pian
piano sostituendosi una seconda e piú grave ossessione: non si
poteva rinunziare alla propria ricchezza; essere ricchi era come
avere gli occhi azzurri o il naso aquilino; una sottile
determinazione legava il ricco al denaro, e dava il colore del
denaro perfino alla sua decisione di non farne uso. Insomma. io
non ero un povero che era stato ricco, ero soltanto un ricco che
fingeva, con se stesso e con gli altri, di essere povero.
Che questo fosse vero, me lo dimostravo, poi, nel modo seguente:
"Che fa un povero vero, se non ha soldi ? Muore di fame. Che
farei io in un caso simile ? Andrei a chiedere aiuto a mia madre.
E se anche non lo chiedessi, non per questo sarei considerato
povero; sarei, invece, soltanto considerato pazzo." Ma, come
pensavo subito dopo, il mio non era un caso estremo. Era un caso
medio, tanto è vero che accettavo di essere mantenuto da mia
madre, sia pure limitando il mantenimento allo stretto
necessario. Cosí, nei confronti dei poveri veri, io venivo a
trovarmi nella situazione privilegiata e sleale del giocatore
ricco nei confronti del giocatore povero: il primo puo perdere
illimitatamente, il secondo no. Ma, soprattutto, il primo può,
appunto, "giocare" ossia divertirsi; mentre il secondo non può
che cercare di vincere.
E difficile dire quel che provassi quando pensavo queste cose.
Come un senso di stregoneria meschina contro la quale non potevo
far niente, perché non potevo sapere quando né come né dove fosse
stata praticata la magia che mi irretiva. Qualche volta pensavo
al detto evangelico: ; piú facile che un cammello passi per la
cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno di Dio; e
mi domandavo che cosa volesse dire essere ricco. Si era ricchi
perché si disponeva di molto denaro? O perché si era nati in una
famiglia ricca ? O perché si era vissuti e tuttora si viveva in
una società che metteva la ricchezza al di sopra di qualsiasi
altro bene? O perché si credeva alla ricchezza, desiderando
diventar ricchi o rimpiangendo di esserlo stato? O perché, come
era il mio caso, non si voleva esser ricchi? Piú ci pensavo e piú
mi pareva difficile precisare a me stesso il senso di
determinazione e di predestinazione che mi ispirava la ricchezza.
S'intende che questo sentimento non ci sarebbe stato, se fossi
riuscito a liberarmi della mia originaria ossessione che la noia
dipendeva dalla ricchezza, e la sterilità dell'arte dalla noia.
Ma tutte le nostre riflessioni, anche le piú razionali, sono
originate da un dato oscuro del sentimento. E dei sentimenti non è
cosí facile liberarsi come delle idee: queste vanno e vengono, ma
i sentimenti rimangono.
Si obietterà, a questo punto, che, in fin dei conti, non ero che
un pittore fallito il quale, caso forse insolito, era consapevole
del proprio fallimento: ecco tutto. Giusto; ma fino ad un certo
segno. Io ero certamente fallito, ma non già perché non sapessi
dipingere dei quadri che piacevano agli altri; bensí perché
sentivo che i miei quadri non mi consentivano di esprimermi,
ossia di illudermi di avere un rapporto con le cose, cioè, in una
parola sola, non mi impedivano di annoiarmi. Ora, in fondo, io
avevo cominciato a dipingere proprio per sfuggire alla noia. Se
continuavo ad annoiarmi, perché allora dipingere ?
Andai via, se ben ricordo, dalla villa di mia madre nel marzo del
1947; poco piú di dieci anni dopo presi a coltellate, come ho
raccontato, il mio ultimo quadro, e decisi di non dipingere piú.
Subito, la noia, che l'esercizio della pittura aveva fino allora
in certo modo tenuto a bada, mi riassalí con violenza inaudita.
Ho già notato come la noia fosse in fondo mancanza di rapporti
con le cose; in quei giorni, oltre che con le cose, mi parve che
fosse anche mancanza di rap porti con me stesso. So che sono cose
difficili a spiegarsi; mi limiterò ad alludervi con una metafora:
durante le giornate che segurono la mia decisione di abbandonare
la pittura, io fui per me stesso qualche cosa di molto simile ad
un individuo per varie ragioni insopportabile, che un viaggiatore
trovi nel suo scompartimento all'inizio di un lungo viaggio. Lo
scompartimento è di quelli all'antica, senza comunicazioni con
gli altri scompartimenti; il treno non si fermerà che alla fine
del viaggio; il viaggiatore e dunque costretto a stare con
l'odioso compagno fino alla fine del percorso. In realtà e fuori
di metafora, la noia, durante quegli anni, pur sotto la
superficie del mio mestiere di pittore, aveva corroso a fondo la
mia vita, non lasciandovi niente in piedi cosí che, una volta
abbandonata la pittura, io sentii che, senza accorgermene, mi ero
trasformato in una specie di rottame o moncone informe, ma come
ho detto, l'aspetto principale della noia era l'impossibilità
pratica di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d'altra
parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo.
Dunque, in quei giorni, una impazienza straordinaria dominava la
mia vita. Niente di quello che facevo mi piaceva ossia mi
sembrava degno di essere fatto; d'altra parte, non sapevo
immaginare niente che potesse piacermi, ossia che potesse
occuparmi in maniera durevole. Non facevo che entrare e uscire
dallo studio per qualsiasi futile pretesto che davo a me stesso,
appunto, per non restarci: comprare sigarette di cui non avevo
bisogno, prendere un caffè di cui non avevo voglia, acquistare un
giornale che non mi interessava, visitare una mostra di pittura
per la quale non provavo la minima curiosità, e cosí via Sentivo,
d'altra parte, che queste occupazioni non era no che smaniosi
travestimenti della noia, cosí bene che talvolta non andavo fino
in fondo alle cose che intraprendevo, e invece di comprare il
giornale o sorbire il caffè o yisitare la mostra, fatti pochi
passi, me ne tornavo allo studio dal quale ero uscito qualche
minuto prima con tanta fretta. Ma nello studio, naturalmente, la
noia mi aspettava e tutto ricominciava
Prendevo un libro, avevo una piccola biblioteca, sono sempre
stato un buon lettore; ma ben presto lo la sciavo cadere:
romanzi, saggi, poesia, teatro, tutta la letteratura del mondo,
non c'era una sola pagina ch riuscisse a trattenere la mia
attenzione. E d'altronde perché avrebbe dovuto farlo? Le parole
sono simboli di oggetti, e con gli oggetti, come ho già detto, ne
momenti di noia, io non avevo rapporti. Lasciavo dunque cadere il
libro, oppure in un impulso di fu rore lo scagliavo in un angolo e
ricorrevo alla musi ca. Avevo un ottimo giradischi, dono di mia
madre nonché un centinaio di dischi. Ma chi mai disse ch la
musica agisce in qualsiasi modo, cioè si fa ascoltare per cosí
dire, per forza, anche dalla persona piú di stratta ? Colui che
disse una cosa simile disse una cos inesatta. In realtà le mie
orecchie rifiutavano non sol tanto di ascoltare ma anche di
udire. E poi, sul punto di scegliere il disco, questo pensiero mi
paralizzava qual è la musica che può essere ascoltata nei momenti
di noia? Cosí, chiudevo il giradischi, mi gettavo su divano e
cominciavo a pensare a quello che avrei po tuto fare.
Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non voler fare
assolutamente niente, pur desiderando ardente mente fare qualche
cosa. Qualsiasi cosa volessi far mi si presentava accoppiata come
un fratello siames al suo fratello, al suo contrario che,
parimenti, nor volevo fare. Dunque, io sentivo che non volevo ve-
dere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in
casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure
continuare a vivere a Roma; che non volevo stare sveglio ma
neppure dormire; che non volevo fare l'amore ma neppure non
farlo; e cosí via. Dico sentivo, ma dovrei dire piuttosto che
provavo ripugnanza, ribrezzo, orrore.
Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per
caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto
che vivere mi dispiaceva, tanto. Ma allora, con stupore, mi
accorgevo che sebbene non. mi piacesse vivere, non volevo
neppure morire. Cosí, le alternative accoppiate che, come in
un funesto balletto, mi sfilavano nella mente, non si fer-
mavano neppure di fronte alla scelta estrema fra la vita e la
morte. In realtà, come pensavo qualche volta, lo non volevo tanto
morire quanto non continuare a vivere in questo modo.
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