Leopoldo María Panero
“Uomo normale che per un momento
incroci la tua vita con la vita del mostro
devi sapere che non fu per uccidere il pellicano
che fu per niente per cui io giaccio qui tra i sepolcri
e che a niente se non al caso e a nessuna volontà sacra
di demonio o di dio io devo il mio disastro”.
Leopoldo María Panero ha trascorso tutta l’infanzia e la gioventù graffiando il ventre della vita, squarciando il ventre della vita per trovarne un senso, ma al senso della vita non ha mai creduto. A cinque anni terrorizzava il padre, Leopoldo Panero Torbado, poeta “laureato” del regime franchista, scrivendo versi non precisamente propri di una mente infantile (…). A vent’anni, dopo il carcere per l’attività politica antifranchista, prima, e poi per vagabondaggio e omosessualità, una serie di tentativi di suicidio. E poi, verso la fine degli anni Settanta, verso i suoi trent’anni, già poeta conosciutissimo in Spagna, e dopo aver patito le prime esperienze di trattamento psichiatrico, viene il periodo parigino che diede vita allo splendido “Narciso nell’accordo estremo dei flauti“, un tempo in cui sopravvisse frugando nell’immondizia, cercando nei rifiuti prodotti dalla Città l’alimento quotidiano del corpo e il senso dell’esistenza, perché, come dicevano gli Alchimisti, in stercore invenitur. E vivendo esperienze sessuali estreme, cercando in Sade e Masoch gli strumenti per “deflorare / con tutto il fango della vita / ciò che ancora non ha vissuto“. Poi ancora la dipendenza dall’alcool e dalle droghe (“E nella notte ascoltai il tuo abbraccio / corretto e silenzioso, / signora / bellissima dama / che nella notte giochi / un bianco gioco“. E “il diamante è una supplica / che tu inietti nella mia carne / il sole impaurito fugge / quando ciò m’entra in vena“), che lo condusse alla perdita degli amici e della famiglia, a internamenti manicomiali sempre più frequenti, finché tutto il suo mondo esteriore fu ridotto al perimetro del sanatorio psichiatrico.
(Ianus Pravo)
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