mercoledì 15 settembre 2010

Cina 2010: anno della tigre


di Francesco Sisci
Forse è il karma delle tigri, il destino che ritorna dopo generazioni e punisce i colpevoli, un contrappasso epocale per cui il grande carnivoro, il divoratore di gente e bestie, oggi è a un passo dall’estinzione, divorato dagli uomini.
I giornali cinesi sono allarmati. Nello zoo della città settentrionale di Shenyang undici tigri siberiane sono morte di fame, uccise lentamente dai guardiani che ne vendevano poi le parti più preziose, ossa e pelle, al mercato nero. Qui una tigre vale una piccola fortuna, oltre mezzo milione di yuan, circa 60mila euro.
Il nobile felino è infatti ingrediente pregiato per la medicina tradizionale. Se ne ricava il quasi magico omonimo balsamo, con virtù terapeutiche per cuore e circolazione. Ci sono poi decotti, liquori, pillole dalle mille funzioni, fino a un principe dei rimedi per maschietti non in forze.
Ma uccidere una tigre dal 2000 è proibito in Cina, e dopo il 2003, anno della epidemia di Sars, è proibito pure mangiare qualunque tipo di animale selvatico, anche se tenuto in cattività. Il problema è nelle pieghe della legge.
Certo, ucciderla è proibito, ma cosa fare di una tigre quando muore di morte naturale? Allora il governo consente che le ossa siano usate a scopi medicinali. Così si crea una zona grigia usata con maggiore o minore discrezione da molti zoo cinesi, non solo da quello di Shenyang.
Meno di un decennio fa si raccontava di pranzi e cene ultraesotiche e super care nel retrobottega dello zoo di Pechino. Si servivano prelibatezze antiche come la zampa d’orso e il pene di tigre. I tagli erano procurati da povere bestie ufficialmente “ammalate” e le cui carcasse erano state altrettanto ufficialmente “bruciate”.
Per le attuali tigri morte di fame il caso è ancora diverso. Gli sforzi di allevare tigri in cattività in Cina hanno avuto un grande successo negli ultimi anni. Nel paese ci sono ora tra le 6mila e le 10mila tigri in zoo e parchi protetti all’aperto. L’idea era che le tigri avrebbero creato una logica economica, per i visitatori e i turisti che pagavano il biglietto.
Ma dopo il successo iniziale le visite sono scemate. Per ravvivare gli entusiasmi alcuni parchi più audaci avevano anche creato cruenti spettacoli: una vacca viva veniva offerta a tigri affamate che la sbranavano sotto gli occhi degli spettatori. Ma anche questo era finito con accuse di crudeltà contro gli animali.
Eppure mantenere animali selvatici e soprattutto i grandi felini è una scelta cara. Ci vogliono oltre 100 yuan di carne al giorno per una tigre, un totale di quasi 40 milioni di euro all’anno solo per la dieta delle belve. Così gli zoo, con pochissime sovvenzioni dallo stato e tante spese, si sono inventati altri modi di evitare la loro stessa estinzione.
Il Notizie di Pechino ora denuncia che almeno 40 tigri sono state usate dal 2000 a oggi per produrre l’omonimo liquore.
Funzionari cinesi del WWF puntano il dito contro il grande parco di tigri di Guilin, dove ben 1,400 felini striati dimagriscono giorno dopo giorno per la loro scarna dieta di polletti.
Il quotidiano ufficiale in inglese China Daily tuona contro i neo bracconieri: "Se si prova che tali malefatte avvengono su larga scala il governo lancerà misure a livello nazionale per fermarle."
Questo ultimo suona come un avvertimento, una minaccia aperta alle centinaia di zoo pubblici e privati di tutta la Cina, “non uccidete gli animali se no...” Ma senza fondi pubblici, con scarsi introiti privati e senza controlli sistematici di autorità e veterinari, gli zoo cinesi sono destinati, dopo una breve febbre di scandalo pubblico a riprecipitare nell’antica logica: se non abbiamo di che sfamare le tigri, sfamiamoci noi di tigri.
Sarà il karma del vecchio predatore, ma potrebbe essere anche il karma del nuovo speculatore: qualcuno o qualcosa forse imporrà un contrappasso all’uomo che non ha saputo badare all’animale.
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da La Stampa

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