M.C. Goodwin - Death Quit

venerdì 28 maggio 2010

Sylvia Plath


Sono abitata da un grido.
Di notte esso esce svolazzando
in cerca, coi suoi uncini, di qualcosa da amare.
Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.
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da Olmo di Sylvia Plath
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Intorno alle quattro del mattino, “in quell’ora azzurra, immobile, silenziosa, quasi eterna che precede il canto del gallo, il grido del bambino, la musica tintinnante del lattaio che posa le bottiglie”, Sylvia Plath oggettiva in simboli le sue idee e suggestioni creando una cosmologia personale che verrà apprezzata soltanto dopo la sua morte e che la farà diventare la poetessa più importante e tormentata del secolo scorso: l’amore come un uncino, un gancio che afferra e tormenta la carne; un padre e un marito come fantasmi, ombre che legano, vincolano, incatenano; una madre come natura incurante e maligna o come bocca vorace che paralizza e inghiotte; l’io staccato da sé stesso che indossa la maschera dell’omicida, del vampiro che prosciuga il respiro; i manichini, le calve figure senza volto, che diventano le figurazioni della luna spettrale, ora bocca aperta in una O di dolore ora teschio col cappuccio d’osso; lo specchio e il lago come luoghi di riflessi che generano sdoppiamenti e moltiplicazioni ossessive; i fiori come simbolo di vitalità e femminilità feconda o come presenze abnormi, divoratrici, spossessatori della persona o raggelanti e funeree; le bende, la stoffa, il vento, le nuvole e l’aria come simboli di soffocazione, di imbavagliamento, di dissolvimento fisico, di incomunicabilità. Le immagini e le parole della Plath sono infilzate dal trattino lunghissimo—un arresto del respiro, una sosta sul vuoto prima di pronunciare l’indicibile, una “stasi nel buio”.
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