Mario Schifano - Tutti Morti
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Il film Tutto è un Blob di immagini televisive. Incalzante. Ossessivo. Fuoricampo, il suono del telefono che squilla e la voce di Mario Schifano che risponde: entusiasta e poi incazzata. Dissolvenza. Nella polpa succosa del Sessantotto, c’è Mick Jagger e Schifano dietro alla macchina da presa che lo filma. Poi, un rumore sordo: del battito cardiaco di chi ha lasciato quasi 20.000 quadri e 300 ore di videoregistrazioni. Di quel cuore che, stremato, gli ha staccato la spina 10 anni fa. Mario Schifano Tutto, primo e unico film (ora in Dvd) su uno degli artisti più problematici e discussi del ‘900, inizia così. Non “su”, ma “con” Schifano. E “dentro” Schifano: dentro la sua arte, la sua cocaina, le sue certezze, le sue incertezze, le sue ossessioni. Solo Luca Ronchi, collaboratore dagli Anni ‘70 di questo disarmante “irregolare”, avrebbe potuto girare questa pellicola che concentra schegge d’interviste (di chi con Schifano ha vissuto e lavorato; di chi l’ha amato, seguito, sopportato) e videoclips, nel tentativo di coglierne il lato intimo, indifeso, commosso. Marianne Faithfull, cantautrice sensualmente maledetta, racconta di quando una volta, a Roma, faceva un freddo cane. E lui la portò in una boutique e le regalò una pelliccia pagandola con un disegno. Avrebbe voluto stare con lui per sempre, Marianne. Anita Pallenberg, invece, ricorda di quando Mario era volato a New York, e insieme andavano a vedere i films di Andy Warhol. E ricorda, Anita, di quando vide Schifano sorridere, finalmente, come un bimbo. Il pittore della scuola di piazza del Popolo, dei monocromi, dei futuristi rivisitati a colori, della Coca-Cola, delle palme stilizzate (memoria dei suoi natali, in Libia), della Esso, era un ragazzo sensibile d’una bontà infinita. Capace di filmare un altro “maudit” come lui, Franco Angeli, mentre tatuava la falce e il martello nel verde di un prato senza fine. E poi di filmare, “warholianamente”, nel ’64, il cemento pulsante di New York. La sua casa, a West Broadway, era diventata la sua Factory. Una Factory da spostare a Roma, in un’altra casa immensa, negli Anni ’70. Perché Schifano è diventato uno dei Re di Roma: che non esce mai, lavora 24 ore su 24, circondato da televisori perennemente accesi. Fotografa tiggì e pubblicità, filmati porno e televendite. Ricavandone affreschi multimediali. E lascia che i colori sgocciolino su grandi tele. Come uno sciamanico “action painter”. Un quadro dopo l’altro, bulimicamente. Capolavori e croste. Per soddisfare i mercanti d’arte e pagare i “pushers”. Schifano che funziona a intermittenza, s’incazza, ride nevrotico. Si spegne, quasi. Ma c’è suo figlio, Marco Giuseppe, ad afferrarlo per i capelli e a salvargli la vita. Lui, lo ama senza riserve e senza pudori. Per metà degli Anni ’80 e per quasi tutti i ’90, Mario è un padre felice. Sfatto, irriconoscibile, però felice. Rimotivato nell’arte e nella vita. È ingordo. Ne vorrebbe tanti e tanti altri, di anni così. Dopotutto è convinto di meritarseli. Troppo tardi. Il cuore lo tradisce nel gennaio del ’98. E lui muore. Con la stessa velocità in cui è vissuto.
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